Una storia che
si ripete. La recente partita di Champions League fra il Napoli e la squadra di
Istanbul del Besiktas è stata contrassegnata da una serie di episodi, che poco
o nulla hanno a che vedere con il calcio giocato. Al di là del risultato
maturato sul campo (un 2-3 causato da alcuni gravi errori di diversi giocatori
partenopei, unitamente ad una serie di assurde decisioni arbitrali che nel
finale hanno influito in maniera determinante sul risultato), ha fatto
“notizia” l’aggressione ed il relativo furto subito da alcuni dirigenti della
squadra turca. Riporta infatti l’edizione napoletana de “La Repubblica” che,
prima della gara, un giornalista turco ed alcuni dirigenti del Besiktas sono
stati aggrediti e rapinati in Via Chiaia. Un tentativo che però non è andato a
buon fine a causa della resistenza delle vittime che sono riuscite ad evitare
di farsi sottrarre i loro preziosi orologi.
Una “vergogna”,
secondo questo quotidiano che però omette anche di riferirci come gli stessi
turchi si siano resi protagonisti di una serie di devastazioni, culminate con
l’intonazione dei soliti cori inneggianti all’eruzione del Vesuvio che,
purtroppo, si sentono ovunque – ed in qualsiasi circostanza – riecheggiare. Senza
che chi è preposto a punire i comportamenti violenti, si degni finalmente di
dare un tangibile e concreto segno di vita e di giustizia, punendo in maniera
esemplare chi va allo stadio solo ed esclusivamente per provocare violenze!
Vorremmo, per
l’occasione, ricordare a questi squallidi pennivendoli ed ascari, a libro paga
di certo pattume politico, che una corretta informazione impone anche di
riportare le nefandezze compiute da chi (i turchi) con la civiltà occidentale
NON HA MAI AVUTO E MAI POTRA’ AVERE nulla a che vedere. Un paese inospitale,
pieno di sporcizia ed ignoranza, con un popolo falso, bugiardo, arrogante e
sbruffone: se volessimo fare una sommaria descrizione della Turchia, non ci
verrebbe in mente altro che questo. E con tutte le ragioni, a giudicare da
quello che poi racconterò in questo articolo.
Se vogliamo
mantenerci in un ambito strettamente “calcistico”, ricordiamo infatti cosa
combinarono i tifosi del Galatasaray (altra squadra della brutta capitale
turca) a Roma, nello scorso mese di Febbraio quando era in programma una
partita valevole per l’Europa League fra la Lazio e la compagine più titolata
della Turchia. 350 animali, provenienti dal ventre molle del Vecchio
Continente, lanciarono petardi e bombe carta in pieno centro. Scoppiò la
polemica politica ma tutto, come al solito, è rientrato senza che le
istituzioni calcistiche continentali (l’UEFA) si siano degnata di prendere
provvedimenti con chi – ovunque si trovi – non perde occasione per creare
disordini e mettere a soqquadro le città.
Un cliché che
però, quando parliamo dei turchi (fatte le debite eccezioni, naturalmente), si
ripete più o meno frequentemente perché
- da rozzi e culturalmente inferiori quali sono sempre stati nel corso
dei secoli – questi turpi personaggi, anche nell’antichità si sono concessi
spesso e volentieri licenze che, a lungo andare, hanno poi finito con lo
scatenare la legittima reazione delle vittime.
Prima di
etichettare quale “vergogna” uno dei tanti episodi di cronaca nera che
flagellano da ormai 150 e passa anni la capitale del Sud, cogliamo l’occasione
per impartire una salutare lezione di storia agli pseudogiornalisti di
“Repubblica”. Ai quali consigliamo di non guardare eccessivamente la pagliuzza
nell’altrui trave, dal momento che gli antenati dei tifosi del Besiktas e del
Galatasaray diversi secoli fa, ai tempi dell’Impero Ottomano, per le loro
“gesta” scatenarono la furia tremenda dei palermitani.
Correva infatti
l’anno 1799 quando, in estate, approdò nel porto del capoluogo siciliano, la
potente flotta turca. Durante la sosta, le navi furono visitate da molte nobili
famiglie, ricevute con ospitalità e cortesia dall’Ammiraglio che offrì loro
dolci e rinfreschi. Uno di questi nobili, il barone Micciché, fu
particolarmente colpito dai modi cordiali dell’Ammiraglio e decise dunque di
ricambiare, invitandolo nella sua dimora di Palazzo Comitini. La delegazione
ottomana giunse ad orario di pranzo e, dopo i convenevoli di rito, iniziò il
banchetto. La serenità e l’atmosfera amicale furono però ben presto rotti dal
sopraggiungere nel salone di un eco di grida di aiuto, provenienti dagli
appartamenti interni del palazzo. Dopo pochi secondi di sbigottimento, i
commensali accorsero nella camera da dove provenivano i lamenti. E lì trovarono
un marinaio, al seguito dell’Ammiraglio, che stava cercando di violentare una
giovane serva di casa Miccichè, che non essendo in buone condizioni di salute,
quel giorno era stata lasciata a riposo. La scena, agli occhi dei presenti, era
a dir poco grottesca: la ragazza si dimenava ed urlava mentre il marinaio turco,
preso da un’irrefrenabile libidine, non voleva affatto mollare la presa.
Ci vollero ben quattro robusti servi per farlo desistere dall’intento, ed una volta condotto nel cortile del palazzo, fu punito dai marinai turchi che facevano da scorta all’Ammiraglio, con 10 vergate sulla pianta dei piedi, come da usanza musulmana. Mortificato dall’episodio, l’Ammiraglio presentò le proprie scuse e si congedò insieme al suo seguito. L’incidente sembrava essere stato chiuso, senza dover dar vita ad ulteriori strascichi.
Ci vollero ben quattro robusti servi per farlo desistere dall’intento, ed una volta condotto nel cortile del palazzo, fu punito dai marinai turchi che facevano da scorta all’Ammiraglio, con 10 vergate sulla pianta dei piedi, come da usanza musulmana. Mortificato dall’episodio, l’Ammiraglio presentò le proprie scuse e si congedò insieme al suo seguito. L’incidente sembrava essere stato chiuso, senza dover dar vita ad ulteriori strascichi.
Ed invece il
giorno dopo a Palermo, scoppiò il finimondo. Infatti, nel primo pomeriggio
alcuni marinai turchi, in libera uscita, fecero irruzione armi in pugno, nella
bottega di un calzolaio. Mentre un paio di loro tenevano soggiogati e bloccati
i garzoni con la minaccia delle armi, gli altri afferrarono la moglie del
padrone della bottega cercando di violentarla. I garzoni per nulla intimoriti
reagirono, aggredendo a loro volta i marinai turchi, menando colpi di trincetto
e di martello. Sorpresi dalla reazione furibonda, i marinai turchi cercarono
scampo nella fuga ma la notizia della tentata aggressione si sparse rapidamente
in tutto il quartiere ed a quel punto iniziò una vera e propria caccia
all’uomo. I malcapitati marinai turchi si trovarono a dover fare i conti con la
rabbia cieca dei palermitani che al loro passaggio per le vie della città,
provarono a colpirli anche con sassi, sedie e vasi di fiori. Ma non solo. Nelle
strade e nei vicoli, i colpi di arma da fuoco abbattevano senza alcuna pietà
qualunque turco vi si trovasse a gravitare. Ed al grido di “mamma li turchi”, i
ragazzi allertavano della presenza dei marinai ottomani, per completare quello
che fino a sera si trasformò in un vero e proprio massacro. Sino a quando,
l’ultimo dei 300 marinai scesi quel giorno a terra non fu ucciso o costretto a
buttarsi a mare per salvare la propria incolumità.
Un episodio di
storia che vale dunque la pena rinfrescare, sia per ricordare a queste scimmie
il cui unico intento è quello di devastare, di non tirare troppo la corda
perché potrebbero poi alla lunga fare la fine dei marinai, loro antenati. Sia
per mettere in guardia chi, a tutti i costi, per meri interessi geopolitici,
vorrebbe imporre l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Inutile
ricordare a questi ultimi che il paese della mezza luna, in tempi non sospetti,
ha fornito un importante appoggio logistico ai terroristi dell’ISIS, a libro
paga della canaglia a stelle e strisce. Oltre che a macchiarsi di efferati ed
impuniti crimini contro l’umanità, se pensiamo al genocidio del popolo curdo.
Il grido “mamma
li turchi”, è sempre valido. Anche e sopratutto nel 2016….
F.M.
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