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martedì 13 febbraio 2024

IL SUD CHE VORREBBE L'ITAgLIA NON E' IL NOSTRO SUD

 


Se ne parla tanto, ma nessuno sa dare una definizione specifica di napoletanità e, per estensione logica, anche di meridionalismo. Quando si parla di identità e appartenenza, è inevitabile legare tali concetti a specificità tipiche di un popolo: lingua, cultura, atteggiamento nei confronti della vita e tradizioni possono essere considerati tratti distintivi che servono per poter catalogare un’etnia.

Non c’è dubbio che ogni volta che si è andati a identificare il napoletano e il meridionale in generale, l’opinione comune ha sempre considerato sia l’uno che l’altro in maniera del tutto dispregiativa, adottando un cliché frutto essenzialmente di stereotipi ormai triti e ritriti che trovano la propria origine, sin dai tempi del fenomeno del brigantaggio. Quello che libri di scuola ipocriti e bugiardi hanno da sempre fatto passare come la ribellione di zotici, cafoni e ignoranti di fronte a quella grandissima cosa che – a loro dire – è stata l’unificazione, se la si vuole considerare in maniera più attenta e obiettiva, è una vera e propria lotta patriottica portata avanti da chi aveva capito che si stava in realtà passando dalla padella (neobarbonica), alla brace (sabauda e tricogliona).


Se a ciò poi andiamo ad aggiungere certi atteggiamenti pigri, indolenti, opportunistici e di collusione con un certo malaffare, ecco che poi l’abito inizia a prendere forme ben chiare e definite. Sino poi ad apparire in tutta la sua evidenza, con la migrazione forzata dal Sud depauperato di risorse verso il Nord (nel frattempo arricchitosi e unico beneficiario) della colonizzazione, spacciata per unità. Con il risultato che oggi, il napoletano e il meridionale in generale, è dipinto come straccione, vittima, piagnone, furbo, accattone, arrogante e propenso a delinquere.


Sfidiamo chiunque a opinare il contrario, di fronte a una tale sfilza di stereotipi e preconcetti che ormai la fanno da padrone, e che accompagnano chiunque sia vissuto (o anche solo nato) al di sotto del Garigliano anche nel 2024.

Tornando alla napoletanità e al meridionalismo, intesi come modo di essere ci sentiamo, in maniera netta e decisa, di prendere le distanze da questa rappresentazione frutto di una rappresentazione stucchevole, alla quale hanno contribuito anche quei soggetti che con il loro modo di essere e di fare hanno dato man forte a chi da sempre guarda Napoli e il Sud, con la solita puzza sotto il naso. Di esempi, se ne possono fare a bizzeffe e potremmo partire dal calcio e dallo sport, in generale.

Non c’è dubbio che la massima espressione del Sud, in ambito calcistico, sia quella di Napoli. Non c’è solo il calcio, ma anche altre discipline come la pallanuoto (pensiamo ai successi – anche se datati – di Canottieri e Posillipo, solo per citare le realtà più vincenti) e il basket. Ma è nel calcio che il Napoli, viene spesso e volentieri identificato come uno strumento di riscossa e di riscatto soprattutto sociale.

Sino a quando la squadra azzurra soccombe e si lamenta, per certa intelligentia italiota siamo nella normalità perché il napoletano è visto come inferiore e perdente, e dunque quale fenomeno folkloristico e nulla più che rimane confinato in quei limiti ben definiti.  Ma nell’esatto momento in cui si inizia a rialzare la testa e ad andare anche oltre le difficoltà, è lì che iniziano i dolori di pancia. Una pagina di storia ma sufficientemente fatta studiare nelle scuole dell’intero Mezzogiorno, è quella della battaglia di Cortenova nella quale le truppe di Federico II, inflissero una memorabile e sonora sconfitta alla Lega Lombarda. Con successivo “strascino” del Carroccio, che rappresenta uno dei punti più alti di un periodo che – a nostro modo di vedere – andrebbe rivalutato e visto in un’altra ottica.

Perché è nella Napoli e nel Sud di Federico II e del periodo normanno-svevo, che ci riconosciamo noi e quella parte di popolazione che non accetta di essere fatta rientrare – come se fosse un corpo unico – in quella lazzarona, spagnolesca, furbetta, lavativa, fannullona, parassita e arrogante che fa parlare sempre in peggio di sé. Una napoletanità e un meridionalismo diversi, i cui portatori sono costretti a barcamenarsi fra due fuochi: da un lato, c’è il preconcetto e lo stereotipo che gli viene appioppato addosso da chi ha origini differenti e vive nel Nord della penisola del quale deve superare la più o meno giustificata e – alcune volte - comprensibile diffidenza; dall’altro, con quella parte da cui prende le dovute distanze e che – con i suoi atteggiamenti – ne rovina la reputazione agli occhi di chi a Napoli o al Sud ci viene solo come turista.

C’è una dura battaglia, in termini culturali e identitari da combattere fra chi intende essere espressione di una napoletanità e di un meridionalismo propositivi, vincenti, indomiti e battaglieri e chi invece preferisce essere appiattito su un neobarbonismo d’accatto, lamentoso, piagnone, pigro e propenso a fregare il prossimo. Ecco, prim’ancora che il sistema da cambiare, bisogna forse andare a modificare il cervello di quelle persone che aspettano “a ciorta” e che si sono rassegnate a considerare la propria terra “na carta sporca di cui nessuno se ne frega e se ne importa”.

Le cose non sono tanto diverse, se parliamo di ambiti differenti come l’arte e la cultura. Nella patria di Totò, Bellini, Caruso, Troisi, Edoardo, Verga, Pirandello (e ci fermiamo qui, perché l’elenco sarebbe davvero lungo), assistiamo sconcertati soprattutto in ambito musicale anche qui a chi intende soprattutto la napoletanità in un modo grezzo e cafone, e chi invece si rifà a una tradizione colta e poco incline allo svilimento. Si assiste così alla trasposizione – di stampo potremmo dire quasi calcistico – di vere e proprie tifoserie, che sostengono questo o quel cantante. Emblematico quanto accaduto al recente festival di Sanremo, dove il semisconosciuto rapper Geolier è stato “spinto” con il meccanismo del televoto a un piazzamento finale che probabilmente è eccessivo, rispetto alla reale orecchiabilità e piacevolezza del suo pezzo. C’è chi ha addotto – in maniera francamente eccessiva, se non piagnona e vittimista – addirittura il razzismo per spiegare i fischi che sono stati riservati all’artista in questione che ha vinto una particolare categoria (quelle delle cosiddette cover), in cui molto probabilmente al primo posto ci sarebbe dovuta esserci Angelina, la figlia dell’indimenticato artista lucano Giuseppe Mango che ha avuto un posto di rilievo nella musica made in Sud degli ultimi 30-40 anni.

Lo stesso Geolier, con un’onestà morale e una semplicità che gli fanno davvero onore, ha riconosciuto che quella è stata la peggiore esibizione della propria vita. Ammettendo implicitamente di non meritare quel riconoscimento. Al contrario di certi suoi fan, si è comportato da ragazzo maturo e consapevole. La speranza è che però non venga utilizzato da certi portabandiera del piagnonismo e del vittimismo che affliggono quali mali atavici la nostra bellissima e straordinaria terra, quale strumento da utilizzare per rivendicare un riscatto che – come al pari del calcio e dello sport, in generale – passano soprattutto da ben altri simboli e comportamenti.

Il non votare più i partiti di questo regime con l’affrancamento dai propri bracci armati sui nostri territori costituiti da mafia, camorra e ‘ndrangheta e la netta presa di distanza da logiche parassitarie, assistenzialiste e vittimiste rappresentano senz’altro i punti da cui partire per costruire una nuova coscienza civica meridionale. Un cambiamento che dovrebbe partire dal modo di atteggiarsi e di porsi davanti ai problemi quotidiani, e basato non più e non solo sulla proverbiale arte di arrangiarsi. Ma anche e soprattutto sulla voglia di costruirsi il proprio futuro senza vincoli e condizionamenti di alcun tipo. Soltanto quando questo processo di evoluzione sarà stato davvero completato, allora esisteranno i presupposti per quel cambiamento delle condizioni economiche e di vita, del nostro amato Sud.


Francesco Montanino


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