Il referendum del 4 dicembre non rappresenta un
appuntamento elettorale pro o contro chicchessia, perché – se dovessimo far
fede a chi propone da un lato della barricata il SI’ e dall’altro, invece, il
NO – non resterebbe far altro che restarsene comodamente a casa. Ma siccome si
tratta di un momento in cui è in ballo l’assetto organizzativo di questo paese
in avanzato stato di decomposizione, vale piuttosto la pena provare ad
analizzarne nel merito (e senza dunque opinioni preconcette) il contenuto.
Nel quesito è indicato che bisogna dire sì o no alla
soppressione del CNEL, al contenimento dei costi della politica e della
riduzione del numero dei parlamentari (nella fattispecie, il Senato). Ultimo,
ma non meno importante, è la ridefinizione delle competenze attualmente in mano
alle Regioni, con la previsione – almeno così sembrerebbe – delle Macroregioni.
E proprio quella delle macroregioni rappresenta una novità assoluta. Nemmeno
durante i governi di centrodestra in cui era presente la Lega Nord, è stato introdotto
anche un minimo di federalismo (o quantomeno qualcosa che ci somigliasse). Solo
tante parole, cui però non hanno mai fatto seguito i fatti. L’inserimento nel
quesito referendario è qualcosa di positivo ed al tempo stesso apprezzabile.
Ma resta da capire in che modo ciò verrà attuato.
Perché nella proposta di riforma Renzi-Boschi è prevista la macroregione ma non
sono affatto specificati i tempi ed i modi con cui verrà poi attuata questa
vera e propria trasformazione, dal punto di vista istituzionale. Inoltre, a
rendere ancora più confuso lo scenario c’è anche la previsione di dover
attribuire certe funzioni che oggi la Costituzione assegna alle Regioni, allo
Stato. Scompariranno del tutto le Province, ed infine è prevista una maggiore
incidenza di autorità sovranazionali (l’Unione Europea) nelle decisioni prese
dal Parlamento.
Ma partiamo dall’analisi dei punti più importanti.
Nell’articolo 57 comma 2 della nuova Costituzione, viene disciplinato il nuovo
Senato che non sarà più elettivo e che verrà composto da 100 membri (95
nominati dalle Regioni ed i restanti 5 saranno a vita, con durata settennale).
Un punto assai controverso perché, se è vero
che il numero dei senatori verrà sensibilmente abbassato (dagli attuali 315, ci
sarà un dimezzamento di 2/3), è altrettanto vero però che mancherà la
caratteristica dell’elettività. E ciò sicuramente non depone a favore, perché
da convinti federalisti, riteniamo sempre di fondamentale importanza che le
istituzioni siano elette in quanto espressione della volontà dei cittadini. E
non certo delle segreterie dei partiti.
Se proprio andava fatto uno sforzo per abbattere i
costi della politica, si poteva tranquillamente sopprimere il Senato e portare
a non più di 400 il numero dei deputati. Inoltre, si poteva introdurre – sempre
per il principio di una maggiore sinergia fra cittadini ed istituzioni – anche
l’elezione diretta del Capo dello Stato che, ancora oggi, viene eletto dal
Parlamento ed è quanto di più lontano dalla volontà e dalla sovranità popolare.
Andando avanti, notiamo un altro aspetto che non ci
convince: l’articolo 71, prevede l’innalzamento del numero di elettori
necessario affinché il popolo possa proporre una legge, con i relativi
articoli. Ad onor del vero, quasi nessuno conosce questa possibilità di
legiferare, ma il voler portare a 150.000 (dagli attuali 50.000) il quorum
affinché i cittadini possano avanzare una loro legge, sembra un ulteriore
segnale di allontanamento fra chi detiene il potere e chi – con l’esercizio del
voto – permette ai parlamentari di prendere decisioni.
Ma il piatto forte della proposta di riforma della
Costituzione è senz’altro l’attribuzione di un gran numero di poteri oggi
spettanti alle Regioni. Lasciando ai giuristi ed ai tecnici il compito di
fotografare meglio certi aspetti di questo articolo, la prima impressione che
si riceve è che siamo di fronte ad un incredibile svuotamento del ruolo delle
Regioni.
Sono davvero tante le devoluzioni allo stato centrale,
e ciò non può non portarci ad una profonda riflessione sul ruolo di questa
istituzione territoriale che – indipendentemente dal fatto che vincano i SI’ o
i NO – è FALLITA! Lo scriviamo a caratteri cubitali perché già la stessa
Costituzione del 1946, era il frutto mal riuscito di un compromesso fra un
assetto centralista ed uno che non si sa se mirasse ad un decentramento spinto
o ad un qualcosa che richiamasse all’autonomia, anche perché va ricordato che
all’epoca riecheggiavano le lotte del patriota Salvatore Giuliano, in Sicilia.
L’attribuzione di competenze che riguardano – solo per
citarne alcune - anche i rapporti con l’Unione Europea, la protezione civile ed
anche la previdenza sociale, la tutela e la sicurezza del lavoro allo Stato,
decretano in sostanza il fallimento dell’idea delle Regioni, così come sono
state concepite dall’Assemblea Costituente. Lo strumento che doveva fare da
collante fra i territori e lo Stato si è di fatto trasformato in un mezzo
attraverso cui politicanti di professione ed intrallazzari vari (ci viene in
mente ad esempio Antonio Berisha, detto “Bassolino”): queste sono state le
Regioni negli ultimi anni. E ad avvalorare tale tesi, c’è anche la totale
eliminazione delle Province che nella nuova riforma scompariranno e
diventeranno solo uno sbiadito ricordo.
Ci eravamo illusi che la Lega Nord dei primordi
potesse cambiare questo status quo, ma non è stato così. Esaurita la spinta
propulsiva e rivoluzionaria della prima ora il Carroccio, con il passar del
tempo, ha fatto piazza pulita dei propri elementi di spicco come Miglio e . E con il tempo si è appiattito su posizioni decisamente centraliste,
così comprovato dall’alleanza con Berlusconi ed il centrodestra.
Così come abbiamo avuto modo di constatare, abbiamo
assistito ad una vera e propria deriva statalista che con Salvini ha raggiunto
il proprio culmine. Matteo 2, ormai, non può più essere considerato un valido
interlocutore su quelle tematiche che invece erano state il cavallo di
battaglia per molti anni del suo predecessore, Umberto Bossi. Quello stesso
Bossi che – ricordiamo bene – ha tradito gli stessi ideali di libertà e di
affrancamento dall’oppressione romana che gli erano valsi il sostegno del suo
popolo ed avevano aperto il cuore alla speranza in chi, come noi, da sempre
vorremmo un cambiamento radicale nell’organizzazione amministrativa di questo
sgangherato e ridicolo paese.
Da movimento territoriale e che dichiarava di distruggere
il centralismo romano e di volersi battere per l’indipendenza della Padania, la
Lega Nord è ormai diventato un partito di estrema destra, assimilabile al
pattume di Fratelli d’Ita(g)lia e Casapound. Il federalismo purtroppo non
rientra più nei programmi politici di quello che una volta era il “Carroccio”.
E la campagna elettorale di questo referendum, rappresenta l’ennesima occasione
persa confermando casomai ce ne fosse ulteriormente bisogno, la totale miopia
politica dell’establishment della Lega 2.0. Invece di continuare a considerare
questa consultazione popolare un pronunciamento contro Renzi, Salvini poteva
piuttosto contestare nel merito, il contenuto della proposta di riforma
costituzionale. Ma, invece, nulla di tutto questo è stato fatto. E dunque,
permane il vuoto nel dibattito politico sul tema del federalismo. Tema ormai
del tutto abiurato, ed è un vero peccato.
Perché, e lo ripetiamo ancora una volta, chi uscirà
veramente sconfitta da questa tornata referendaria – indipendentemente da
quello che sarà poi l’esito – è l’idea delle Regioni, così come sono state
concepite ed hanno funzionato dal 1946 ad oggi. I veri federalisti devono a
questo punto trovare – ora più che mai - la quadra su pochi, ma chiari punti
per presentarsi in maniera unitaria al momento delle elezioni che percepiamo
sempre più vicino. La sfida di domani, sarà infatti quella di superare il
dibattito sulle Regioni che ormai hanno fallito e riproporre piuttosto l’idea
delle Macroregioni, introdotte dall’indimenticato professore Miglio non più
tardi di 20 anni fa. L’alternativa – stando così le cose – è quello di
assistere ad una deriva autoritaria, con conseguenze del tutto imprevedibili.
Francesco Montanino
Posta un commento