Milano - Il mese di ottobre, nella storia, ha sempre fatto
rima, almeno da un secolo a questa parte, con profondi cambiamenti. Quello di
quest’anno, poi, rischia di riscrivere la nostra storia ed il futuro che ci
attende fra il referendum sull’indipendenza della Catalogna salito alla ribalta
dell’opinione pubblica mondiale, dopo la barbarie perpetrata dalla Spagna. E
quello che proprio alla luce di quanto sta accadendo a Barcellona in queste
settimane, si terrà il 22 ottobre in Lombardia e Veneto ed assume un valore
assai più che simbolico.
Di questo si è parlato nel corso di un interessante
incontro organizzato dal “Tea Party”
nel capoluogo lombardo, e che ha visto la partecipazione del prof. Marco Bassani e di Giancarlo Pagliarini.
La principale preoccupazione, emersa durante la
serata, riguarda l’affluenza alle urne che rischia di essere davvero bassa, e che
potrebbe dunque svilire il significato di quello che appare agli occhi dei più
attenti, quale occasione unica ed irripetibile evidenziare la voglia di
affrancamento delle regioni che producono la maggior parte del PIL nazionale
dalla voracità di Roma ladrona.
“Stiamo
constatando una forma di comunicazione
– ha rilevato Stefano Magni del Tea Party Lombardia - assai fredda ed informale, ed il risultato è
che tutti sanno che il 22 ottobre si andrà a votare. Ma nessuno in realtà sa
per che cosa si vota. La verità è che siamo in un periodo storico assai
particolare, così come ci sta dimostrando la Catalogna. Chi è contro il
referendum in Lombardia, agita lo spauracchio dei catalani, non mancando di
tirare in ballo quale puerile motivazione che si tratta di popoli pericolosi e
sconsiderati, come quelli che hanno votato per la Brexit o per Trump. Ed
etichettando, questa consultazione popolare, come il primo passo di un’opera di
sovversione istituzionale. Dall’altra parte, invece, i leader nazionali della
Lega Nord ed in primis Matteo Salvini, si affannano a specificare che questo è
un referendum legale che nulla ha a che vedere con quello catalano, con cui si
intende ottenere maggiore autonomia, nell’ambito della carta costituzionale.
Nessuno dei due, però, nel concreto spiega di cosa si sta parlando. E lo
abbiamo visto anche sulla carta stampata, con due editoriali di segno opposto.
Uno abbastanza duro di Giorgia Meloni che ha bollato quale antipatriottico
questo referendum; dall’altro lato, ha risposto il giorno dopo per le rime
Vittorio Feltri che invece ha invitato i contrari di smetterla di piangere e di
andare a lavorare, iniziando magari a prodursi da soli i soldi con il lavoro”.
La serata è poi entrata nel vivo, con gli interventi
di Marco Bassani e Giancarlo Pagliarini che hanno
sviscerato con le consuete lucidità e chiarezza che li contraddistingue tutte
le tematiche più importanti, legate a questa consultazione referendaria che –
ricordiamo – può avere degli interessanti risvolti anche in un Sud che dovrebbe
iniziare a rimboccarsi seriamente le maniche, se vorrà davvero riservarsi un
futuro dignitoso.
“Lo stesso
giornale citato in precedenza, (“Il
Tempo”, nda) in questi giorni, – ha
esordito Bassani - non sta lesinando nel
pubblicare una serie di articoli giornalistici profondamente anti-lombardi ed
anti-veneti, con una virulenza nei toni che non ho visto neppure nel 1996, nei
giorni per intenderci della marcia del Po. Roba che già di per sé, dovrebbe
spingere anche i più scettici a recarsi alle urne. Ma c’è di più. In
particolare, c’è n’è uno in cui – pensate un po’ – ci hanno etichettato
addirittura come “più terroni dei terroni”, ed è stracolmo di falsità
dall’inizio alla fine. Basandosi sull’assurda tesi dell’evasione fiscale che,
purtroppo, in Lombardia è fra le più basse d’Europa (fra l’11 ed il 12%) e
questo permette di reggere ancora in piedi l’Italia. Qualunque ricchezza che
viene prodotta qui, dall’anno 1.000, non sfugge alle grinfie del Fisco da
svariate generazioni. In Calabria, siamo al 39% ma se fosse più bassa a me
farebbe piacere perché ci troveremmo con un residuo fiscale che qui salirebbe
addirittura a 100 miliardi di euro. Stiamo pagando il socialismo degli altri,
con una spessa pubblica fra le più basse a livello europeo ma con un livello di
tassazione inaccettabile. I soldi dei lombardi stanno finendo, e se appoggio
questo referendum lo faccio con un certo scetticismo. Questo perché non si tratta più di giochetti fra la linea
fascio-itagliana di Salvini e l’area di Maroni, ma molto più semplicemente di
un qualcosa che assume un significato diverso. Se dovessero recarsi alle urne
un alto numero di cittadini, con una valanga di sì, si porrebbe il problema
della schiavitù fiscale dei lombardi che, stando a quello che dice l’articolo 3
della costituzione, dovrebbero essere uguali agli altri. Ma così affatto non è
per il Fisco, visto che siamo sottoposti ad una rapina fiscale che finisce a
settembre per finanziare sovvenzioni che fra l’altro non vanno manco a finire
al Sud. Essere schiavi fiscali significa che per generare 1 euro di spesa
pubblica, equivalente a 40 centesimi reali, dobbiamo spendere 2,45 euro di
tasse contro gli 0,27 pagati invece dal cittadino calabrese.
Ovvero 10 volte tanto, ma con la differenza che il cittadino calabrese riceve lo stesso risultato del lombardo ma spendendo molto meno. Si tratta di una sperequazione che non ha eguali nella storia dell’umanità, ed uno dei più grandi misteri è quello di capire dove vanno a finire i circa 60 miliardi di euro di residuo fiscale. Insomma, si tratta di uno scherzo che non solo ci costa ogni anno un occhio della testa ma, aggiungendo oltre al danno anche la beffa, qualcuno si prende la briga pure di etichettarci “più terroni dei terroni”. A qualcuno potrebbero pure girare, ma qui c’è un punto fondamentale. È un processo storico perché non abbiamo ancora capito che essere schiavi fiscali significa essere schiavi storici. La schiavitù in Europa è nata proprio così e la spremitura fiscale, con un PIL che continuerà a diminuire, ci porterà a svendere i nostri corpi nel senso che lavoreremo per lo stato avendo in cambio appena lo stretto necessario per sopravvivere. Il rapporto fra fisco, tasse e schiavitù non è stato ancora ben compreso, quando si tratta di qualcosa di assai importante. Non so se dietro c’è una lotta interna o di partito, ma sta di fatto che se come temo il prossimo 22 ottobre ci sarà una scarsa partecipazione alle urne, significa allora che gli altri continueranno a spendere i nostri soldi. Tutta la ricchezza da noi posseduta, servirà solo a compensare il debito contratto dallo stato. Per quanto riguarda il Sud, voglio dire che i meridionali non sono secondi a nessuno come storia, tradizioni e cultura ma hanno il problema che fanno parte dello stato italiano che perpetua a trattarli come bisognosi di attenzioni. Il Mezzogiorno dovrebbe iniziare a chiedersi non perché la Lombardia ed il Veneto spingono per l’autonomia, quanto piuttosto maggiore autonomia per sé stesso. Anche se mi rendo conto che non è affatto facile perché a giusta ragione i suoi cittadini ripongono scarsa fiducia nella classe politica che li esprime”.
Ovvero 10 volte tanto, ma con la differenza che il cittadino calabrese riceve lo stesso risultato del lombardo ma spendendo molto meno. Si tratta di una sperequazione che non ha eguali nella storia dell’umanità, ed uno dei più grandi misteri è quello di capire dove vanno a finire i circa 60 miliardi di euro di residuo fiscale. Insomma, si tratta di uno scherzo che non solo ci costa ogni anno un occhio della testa ma, aggiungendo oltre al danno anche la beffa, qualcuno si prende la briga pure di etichettarci “più terroni dei terroni”. A qualcuno potrebbero pure girare, ma qui c’è un punto fondamentale. È un processo storico perché non abbiamo ancora capito che essere schiavi fiscali significa essere schiavi storici. La schiavitù in Europa è nata proprio così e la spremitura fiscale, con un PIL che continuerà a diminuire, ci porterà a svendere i nostri corpi nel senso che lavoreremo per lo stato avendo in cambio appena lo stretto necessario per sopravvivere. Il rapporto fra fisco, tasse e schiavitù non è stato ancora ben compreso, quando si tratta di qualcosa di assai importante. Non so se dietro c’è una lotta interna o di partito, ma sta di fatto che se come temo il prossimo 22 ottobre ci sarà una scarsa partecipazione alle urne, significa allora che gli altri continueranno a spendere i nostri soldi. Tutta la ricchezza da noi posseduta, servirà solo a compensare il debito contratto dallo stato. Per quanto riguarda il Sud, voglio dire che i meridionali non sono secondi a nessuno come storia, tradizioni e cultura ma hanno il problema che fanno parte dello stato italiano che perpetua a trattarli come bisognosi di attenzioni. Il Mezzogiorno dovrebbe iniziare a chiedersi non perché la Lombardia ed il Veneto spingono per l’autonomia, quanto piuttosto maggiore autonomia per sé stesso. Anche se mi rendo conto che non è affatto facile perché a giusta ragione i suoi cittadini ripongono scarsa fiducia nella classe politica che li esprime”.
Ancora più semplice la descrizione fatta da Giancarlo Pagliarini che, citando
l’esempio del bicchiere di birra a Milano ad un cittadino polacco, pagata dalla
Lombardia e non più da Roma ha provato a rendere meglio l’idea sul tema delle
eventuali, maggiori competenze che spetterebbero alla regione più produttiva
dello stivale. Provando anche a sanare un innegabile deficit comunicativo,
visto che l’informazione sul contenuto ed il significato di questo referendum
continua purtroppo a latitare.
“Con chiunque
ne ho parlato in questi giorni – ha
affermato senza misure, l’ex ministro del Bilancio ai tempi del primo governo
Berlusconi – appena 3 su 100 sanno di
cosa si tratta. In realtà, questo è un quesito di una banalità incredibile, ma
non l’hanno spiegato perché la gente ancora non capisce cos’è. Non c’entra
nulla il discorso dell’autonomia, magari fosse così. Si tratta di un qualcosa a
somma zero perché con questo referendum, giusto per essere più chiari, la
Lombardia riceve un compito che prima spettava a Roma, pagando di tasca
propria. Con la sola differenza che potrà trattenersi ciò che resta, perché da
100 di tasse in meno a Roma. E magari, poiché le avanzano più soldi, può
ridurre le tasse o mettere su strada qualche autobus in più. Ed invece, stiamo
sentendo delle cose assurde perché gli altri 97 pensano che togliamo i soldi
alla Calabria o addirittura iniziamo la secessione. Il testo, a dire il vero
abbastanza comprensibile, che è stato usato, alla fine è quello del M5S, e si
attiene in sostanza all’articolo 116 della Costituzione che parla delle
competenze che spettano alle Regioni. Qualcuno potrà dire che poteva essere
aperto un tavolo quando, in realtà nelle precedenti 5 volte, Piemonte,
Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna hanno sì provato a farlo, ma gli è sempre
stato detto no. Chi obietta che è possibile aprire un tavolo, è in palese
malafede. Solo una partecipazione massiccia e plebiscitaria può cambiare la
situazione perché se non dovessimo riuscire neppure a raggiungere il 50% degli
aventi diritti al voto, è tutto inutile. Se nessuno si prende la briga di
informare i cittadini, prepariamoci ad una vera tragedia perché i burocrati di
stanza a Roma potranno tranquillamente obiettare che alla gente non gliene
frega niente. Se questo referendum è utile ai cittadini lombardi, ai politici
non interessa perché lottano solo per il potere, contrariamente a ciò che
accade in Svizzera dove invece la prima preoccupazione è quella di curare gli
interessi degli elettori. La tendenza – ha quindi concluso – è che gli stati nazionali sono destinati
inevitabilmente ed irreversibilmente a disgregarsi”.
Naturalmente, non poteva mancare anche una riflessione
sulle vicende della Catalogna il cui futuro, in queste ore, appare quanto mai
incerto ed imprevedibile, anche alla luce del discorso del proprio presidente Carles Puidgemont alla Generalitat.
Secondo il professor Bassani “il referendum catalano potrebbe aprire una clamorosa falla all’interno
della diga spagnola, che rischia di crollare del tutto sotto i colpi della
Galizia, della Navarra, dei Paesi Baschi e dell’Extremadura che a quel punto si
troverebbero nella condizione di chiedere anch’essi la secessione. Questo
fenomeno però non sarebbe confinato alla sola Spagna, ma andrebbe a toccare
altre regioni come la Corsica che già si sta muovendo nel senso di rifiutare
l’ingerenza francese. Mentre la Scozia sta solo discutendo quando si terrà il
prossimo referendum, tenendo presente che l’ultimo è fallito a causa delle
vecchie generazioni, e dunque diventerà sicuramente indipendente perché i
giovani spingono in tal senso. Ciò che mi ha maggiormente colpito, tornando a
quanto sta accadendo in Catalogna, è stata la totale mancanza di violenza
manifestata dalla popolazione che si è recata alle urne alzando le mani e senza
alcuna arma in mano. Siamo alla vigilia di un processo che porterà molto presto
alla disgregazione totale dei vecchi stati nazionali e centralisti, che niente
e nessuno potrà fermare. Si inizierà come accennavo alla Catalogna,
semplicemente perché i cittadini di quella terra non ritengono più conveniente
far parte della Spagna. Non la vogliono lasciare andare in nessun modo, un po’
come accadde nel lontano 1991, con l’ex URSS. Vi ricordate cosa accadde? La
teoria geopolitica diceva che i paesi baltici non potevano essere abbandonati
perché sarebbero stati gli ultimi ad essere lasciati, ed invece sono stati i
primi a farlo. Da lì in poi, si è verificato un effetto domino perché dal primo
all’ultimo, tutti quelli che non erano russi se ne sono andati. La stessa cosa
accadrà con la Catalogna, perché è l’ultimo baluardo di quell’impero
multiculturale che è la Spagna. Una volta saltato il tappo catalano, scompare
la Spagna perché poi seguiranno a ruota i Paesi Baschi, la Galizia e la Navarra.
Basti pensare che in Europa, la più grande esplosione di violenza della storia si
è verificata quando sono nati 19 stati nazionali, e non nel momento in cui
erano presenti i micro-stati. Solo con tante piccole patrie, potremo assistere
ad un vero futuro di pace e ad un’Europa sicuramente più ricca e prospera. Per
quello che riguarda l’Italia ancora
si continua a non capire che è essa stessa IL problema, e non piuttosto che non
ha problemi”.
Sugli incredibili errori strategici commessi dalla
Spagna sulla gestione dei rapporti con la Catalogna, si è invece incentrata
l’analisi di Pagliarini che ha notato come “quelli
che appena 10 anni fa, erano una minoranza e nulla più come gli
indipendentisti, con il trascorrere del tempo abbiano acquistato sempre più
forza e consenso, grazie alle sciagurate decisioni di Madrid. Zapatero nel 2006
aveva trovato il modo di accontentare i catalani che mai e poi mai, all’epoca,
avrebbero deciso di staccarsi dalla Spagna. Ed invece, dal suo avvento, Rajoy
ha iniziato a commettere errori madornali, comportandosi in maniera arrogante
con chi invece contribuisce al PIL iberico in maniera assai consistente. La
stessa gestione della situazione che si è venuta a creare nelle ultime
settimane, non fa altro che confermare non solo quanto siano stati stupidi ed
ottusi ma anche di come certi retaggi fascisti e franchisti, gli spagnoli
continuino ad averli nel proprio DNA. Il risultato è che la percentuale di
indipendentisti è cresciuta a dismisura, ed oggi rappresenta il primo partito
della Catalogna. Anche la stessa comunità internazionale non è che ci sta
facendo una bella figura, visto che si è mostrata essere dalla parte del
presidente Rajoy, senza voler comprendere le ragioni di questo popolo”.
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