La recente partita di
calcio fra Napoli ed Atalanta, valevole per i quarti di finale di coppa
ita(g)lia, si è lasciata dietro di sé degli strascichi che poco o niente hanno
a che vedere con il calcio giocato.
Alla vittoria sul
campo dei bergamaschi per 2-1, si sono infatti accompagnati due eventi che non
possono certo lasciarci indifferenti. L’esposizione di uno striscione – portato
da certa feccia orobica - recante l’immagine di Lombroso ed il post di tale Giuseppe Pini, esponente della lega
salviniana, meritano una nostra attenta analisi.
Partendo dallo
striscione della vergogna, manifestiamo il nostro totale sdegno e disgusto di
fronte all’incredibile ignoranza manifestata da chi controlla l’accesso ai
settori dello stadio “San Paolo” di Napoli, avendo fatto introdurre uno dei
simboli più deprecabili ed odiosi del genocidio che fece seguito alla
colonizzazione sabauda della nostra terra. A fare da contraltare, il divieto
valido per il simbolo del Regno delle Due Sicilie che comunque rappresenta un
pezzo della storia del Sud che parla – ad ogni di buon conto – di una libertà
durata la bellezza di 7 secoli, nonostante anch’esso non sia la meraviglia che
i nostalgici neo-barbonici vogliono continuare a far credere.
Ma chi era Marco Ezechia detto Cesare Lombroso?
Non tutti sanno che questo turpe personaggio, nato a Verona il 6 novembre 1835
e crepato a Torino il 19 ottobre 1909 (fonte: wikipedia), era il teorico della
delirante teoria della “criminalità per nascita” e dell’inferiorità dei
meridionali!
Un modo vergognoso
con il quale i Savoia hanno voluto far credere che il “brigantaggio” fosse un
fenomeno delinquenziale e fuorilegge dal momento che riprendendo le tesi di questo
“signore” che sosteneva che “un criminale è tale perché ci nasce”, volevano
trovare la giustificazione morale per i crimini di guerra di cui si sono
impunemente macchiati.
Donne, bambini ed
anziani trucidati e deportati in lager come quello di Fenestrelle in Piemonte,
rappresentano ancora oggi una vergogna che non smetteremo mai di denunciare e
di rinfacciare, a chi sventola un tricolore che non ci appartiene.
Insomma una folle
base concettuale del tutto simile a quella che adoperarono i nazisti nei
confronti del popolo ebraico, oltre mezzo secolo dopo. Stendiamo poi un velo
pietoso sul museo a lui dedicato, che consideriamo un autentico museo degli
orrori che sarebbe magari anche il caso di chiudere. Dal momento che è un luogo
in cui sono esposti in bella mostra una macabra collezione di crani ed altre
parti di corpi umani. Compresi quelli di chi aveva semplicemente lottato per
difendere la propria terra, dall’invasione di uno stato nemico come quello
sabaudo!
La colpa dunque nostra
sarebbe quella di essere nati in una terra dove essere camorristi,
scansafatiche, lavativi o mafiosi è un qualcosa di genetico. Peccato però che
la Storia racconta anche di eventi in cui la “presunta” superiorità morale e
non solo del Nord venga clamorosamente capovolta.
E qui ci rivolgiamo
non solo e non tanto a chi rimpiange reucci da operetta come i Franceschiello
di turno e di accatto, e fa del piagnonismo la propria ragione di vita. Ma
anche e soprattutto a chi come Gianluca Pini, ha sentito il bisogno di
esprimere la propria soddisfazione per la vittoria dei bergamaschi in “terra
estera”.
In un post di
Facebook, uno dei più fidati uomini al soldo del fannullone padano Matteo
Salvini ha esternato in questo modo il successo calcistico di una squadra che
non è neppure quella della sua città (è nato infatti a Bologna) in quella che
considera “estero”. In effetti, a ben guardare in parte ha ragione dal momento
che anche noi consideriamo Bergamo, una località di uno Stato estero, al quale ci auspichiamo si possa un giorno accedere con il passaporto della nostra Repubblica Federale di
Ausonia.
Ma a costui, dal
momento che tende ad accomunarci con la parte perdente del Sud vogliamo
raccontare, non il solito folkloristico “fattariello”.
Ma una vera e propria pagina di storia che forse dovremmo iniziare ad imparare
bene anche noi, per difenderci da chi ancora oggi ci considera inferiori!
Dal sito Stupor Mundi
(www.stupormundi.it) volentieri
riprendiamo, la cronaca dettagliata della battaglia di Cortenova. Un luogo che
i cari seguaci della Lega dovrebbero conoscere assai bene, dal momento che lì
il grande sovrano normanno-svevo Federico
II inflisse una memorabile batosta ai loro antenati.
“Rientrato in Italia nel 1236
dopo un soggiorno in Germania, Federico II ritenne che era giunto il momento di
sottomettere i Comuni lombardi: la Lega Guelfa aveva abbandonato la consueta
baldanza, l’alleanza con Ezzelino da Romano aumentava le possibilità di
successo. Federico
II intraprese la seconda campagna di Lombardia con l’obiettivo di occupare
Brescia, che gli avrebbe consentito di raggiungere con facilità Milano, il
nemico più potente e determinato. Alla fine dell’estate del 1236, l’esercito
svevo iniziò le operazioni militari con la conquista del castello di San
Bonifacio, nel Veronese; ed ai primi di ottobre, superò il Mincio tra Valeggio
e Cavriana, entrando in territorio mantovano. Dopo l’occupazione di alcune
fortezze, Mantova fu la prima a firmare un armistizio, determinata più dal
timore di essere distrutta che non costretta da un’ardita operazione sul campo.
Successivamente furono dati alle fiamme i castelli di Mosio, Marcaria,
Redonesco, Guidizzolo, conquistate le località di Carpenedolo e Casaloldo. In
breve tempo fu acceso un fronte vastissimo, lungo oltre quaranta miglia:
Federico II intendeva occupare il territorio per isolare i centri maggiori ed
ottenerne la resa della Lega Guelfa con maggiore facilità. A Goito, espugnata
dopo una rapida ma aspra battaglia, fu eretto il campo imperiale; attraversato
il fiume Chiese a Calcinato, fu assediato il castello di Montichiari, la cui
resa fornì a Federico l’illusione di avere in pugno la situazione. Ad inizio
novembre gli Imperiali occuparono il castello di Pontevico, pronti a dirigersi
su Brescia. L’esercito della Lega, che nel frattempo aveva superato il fiume
Oglio e si era portato in soccorso a Brescia, si recò incontro al nemico, con
la duplice intenzione è di allontanare il pericolo dalla città e è di evitare
lo scontro in campo aperto che avrebbe visto rapidamente vincitore il più
agguerrito esercito imperiale”.
La narrazione prosegue poi con l’epica battaglia di Cortenova,
teatro dello scontro cruciale fra le forze in campo, con un capolavoro tattico
firmato da Federico II che trasse in un decisivo tranello i lombardi.
“L’incontro
fra i due eserciti avvenne tra Manerbio e Pontevico alla confluenza del fiume
Mella con il fiume Oglio: una prima vittoria della tattica guelfa, dato che la
zona paludosa rendeva inoffensiva la cavalleria pesante sveva. I due eserciti
si guardarono in cagnesco per una quindicina di giorni, finché Federico II,
visto che non poteva marcire un inverno in un acquitrino, definì una strategia
che si dimostrerà vincente. Le cronache riferiscono che il 24 novembre 1237
Federico manovrò le truppe in modo da fornire al nemico l’impressione di
volerle ritirare in direzione di Cremona. Per rendere più evidente la manovra,
fece attraversare l’Oglio agli uomini ed alle salmerie su diversi ponti, che
furono immediatamente abbattuti ed incendiati. Ma la realtà si prospettava
molto diversa. Raggiunta la riva destra del fiume Oglio, l’esercito svevo
iniziò a risalire il corso del fiume verso nord e raggiunse in poche ore
l’abitato di Soncino, dove pose il campo in attesa di conoscere le mosse del
nemico. I Lombardi, viste le manovre del nemico, il 26 novembre si sentirono
liberi di uscire dalle posizioni: i Bresciani ritornarono alle loro case,
convinti di avere ormai scongiurato il pericolo dell’assedio, mentre i
Milanesi, assieme ai loro alleati, si misero in marcia sulla riva sinistra
dell’Oglio dirigendosi verso nord, convinti di allontanarsi dall’esercito
imperiale. Era il momento che Federico attendeva; tant’è che all’alba del
giorno 27 tolse il campo che aveva posto a Soncino e proseguì la marcia verso
nord con l’idea di attendere il nemico e di aggredirlo su un terreno
favorevole. Egli aveva ben compreso che i Lombardi, per ritornare a Milano,
potevano attraversare l’Oglio solo utilizzando i solidi ponti di Palazzolo e
Pontoglio. L’esercito della Lega si potrò a nord con una marcia rapidissima:
nella tarda mattinata dello stesso 27 gli uomini ed i mezzi erano pronti ad
attraversare l’Oglio a Palazzolo, per dirigersi poi verso l’amica Cortenova. Le
operazioni di transito sul fiume si protrassero per alcune ore, consentendo a
Federico di acquartierare il proprio esercito poche miglia a sud di Cortenova,
deciso ad affrontare i Lombardi senza dar loro il tempo di organizzare le
difese. Il che avvenne puntualmente. L’Imperatore ebbe appena il tempo
necessario per disporre la cavalleria in assetto di guerra, di gridare qualche
ordine concitato fra i boschi fradici avvolti dalla bruma, che lo scontro
avvenne attorno al Carroccio dei Milanesi, dove i fanti lombardi si ammassarono
rapidamente, pronti ad una strenua resistenza. In uno sforzo disperato essi
riuscirono a mantenere le posizioni, finché il buio della notte consigliò ad
entrambi i contendenti di sospendere le ostilità. La mattina successiva,
all’alba del 28 novembre, Federico II ebbe una sgradita sorpresa: approfittando
della tregua, i Lombardi si erano ritirati, evacuando l’accampamento ed il
fortino occupato. Non gli non restava che gettarsi all’inseguimento dei
fuggiaschi: in poche ore, l’esercito lombardo presente a Cortenova subiva una pesante
batosta: molti soldati furono uccisi dalle armi sveve, altri annegarono nei
fiumi in piena nel tentativo di fuggire”.
Una volta stroncata la resistenza dei lombardi, Federico II fece
il proprio trionfale ingresso nella città amica di Cremona in cui fece sfilare il
Carroccio, privo di ornamenti e trainato da un elefante bardato a festa, e sul
quale era legato Pietro Tiepolo,
ovvero il capo della Lega Lombarda. Ma non è tutto. Il sovrano normanno-svevo
lo donò al Papa a Roma, con la promessa di riservargli onori e che fosse
opportunamente e gelosamente conservato al Campidoglio.
Quella battaglia segnò di fatto la fine della Lega Lombarda e
rappresentò il punto di massimo splendore militare raggiunto dalla dinastia
degli Hohenstaufen.
Con questo, abbiamo voluto ricordare sia ai neo-barbonici che a
certi esponenti della Lega che bisogna stare molto attenti quando si intende scegliere
i simboli. Tanto gli uni, quanto gli altri si affidano infatti ad emblemi che nella Storia, sono
stati accomunati dalla parola FALLIMENTO.
Ai seguaci dei Borbone,
vogliamo solo ricordare che il Sud non è grande solo perché da queste parti
hanno inventato per primi il bidet o la prima rete ferroviaria. Certo, il
periodo borbonico rappresenta una pagina della storia della nostra terra che va
studiata. Ma con le giuste razionalità e criticità perché nel contempo presenta
tanti lati oscuri, dal momento che è per causa loro che adesso ci ritroviamo
occupati da un regime criminale e famelico come quello itagliano, da oltre un
secolo e mezzo.
La funzione dei neo-barbonici è quella di tenere ancora
nell’ignoranza la popolazione meridionale che probabilmente poco o nulla sa, ad
esempio, che grazie a Federico II° a Napoli venne costruita una delle prime
università europee e che le “Constitutiones
Melphitanae”, rappresentano ancora oggi un importante punto di riferimento
per i giuristi. Potremmo anche citare la Scuola
Siciliana, dalla quale ha tratto origine la nostra letteratura attraverso
l’utilizzo di una lingua romanza (il siciliano) diversa dal provenzale. Napoli
e Palermo divennero capitali culturali di ampio respiro, dal momento che nella
Corte di Stupor Mundi si incontravano le culture araba, ebraica,
germanica, greca e latina realizzando un esempio di vera integrazione fra i
popoli che oggi ci appare difficilmente realizzabile.
Ai nipotini del Carroccio come Pini o Salvini, rimembriamo che a
tirare troppo la corda va finire che si spezza, perché più di una volta la
Storia ha fatto la propria comparsa ed ha ammonito l’uomo da non perpetuare i
propri errori, con i ricorsi.
Non a caso, abbiamo voluto scegliere l’effigie federiciana quale
simbolo del nostro partito, proprio perché siamo convinti che il Sud non può e
non deve continuare a passare come una terra, in cui vivono persone che sanno
solo piangersi addosso e che facilmente si vendono al potente di turno. L’esperienza
normanno-sveva ci parla di un Mezzogiorno vincente, temuto da chiunque ed in
grado di farsi rispettare tanto dal Papa quanto dal mondo islamico che pure non
nascondeva mire espansionistiche nei confronti del Vecchio Continente.
F.M.
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